La sezione di Rieti del Club Alpino Italiano, con la collaborazione del Comune di Rieti e con l’apporto del Consiglio Regionale del Lazio, ha organizzato un evento di grande richiamo per tutti: scoprire con occhi nuovi, grazie soprattutto alle foto dell’alpinista reatino Enrico Ferri, mondi di natura vergine tra montagne e ghiacci grandiosi dell’Himalaya indiano, geografie che ai più non è dato fare esperienza, se non addirittura solo immaginarle. L’evento, che vede protagonista il team italiano della spedizione internazionale del CAI in omaggio ai 150 anni della nascita del sodalizio, si terrà presso l’Auditorium Varrone sabato 21 giugno alle ore 21 (ingresso libero).
Molto soddisfatti i sette alpinisti ritornati alla base, dopo quasi un mese e mezzo trascorso in Himalaya, in completo isolamento, senza telefoni satellitari. Alcuni sono guide esperte, gran parte provengono dal Vicentino e possiedono una notevole esperienza di alpinismo esplorativo sia nell’arco alpino sia in ambito extraeuropeo; insieme rappresentano ben 5 generazioni che hanno saputo trovare e mantenere, anche in condizioni difficili e di pericolo, un ottimo affiatamento di gruppo.
Il team è formato dal capo spedizione Alberto Peruffo del CAI sez. di Montecchio Maggiore (VI), Francesco Canale (Centro Addestramento Alpino Alta Montagna), Cesar Rosales Chinchay (Guide Don Bosco Perù), Enrico Ferri (tecnico Soccorso Alpino, CAI Rieti), Davide Ferro (Gestore Rifugio Campogrosso), Anindya Mukherjee (Himalayan Club, India) e Andrea Tonin (CAI Valdagno). La loro impresa alpinistica ed esplorativa in uno dei luoghi più remoti e sconosciuti dell’Himalaya Orientale, nel Sikkim settentrionale, ha centrato molti degli obiettivi prefissati (geografici, culturali e finanche diplomatici), e forse altri per loro ancora più importanti, come riveleranno nel primo resoconto. Ben più che “alpinismo” quindi, e ben oltre la performance sportiva. E’ la storia di natura e culture che si sono incontrate, cariche di mistero, diversamente ricche di tesori immateriali: in tibetano il Massiccio del Kanchenzonga, cioè il colossale Ottomila che con il suo imponente versante Sud si spalancava tra le nebbie ai loro occhi, significa infatti “I Cinque Tesori della Grande Neve”.
Per la prima volta il gruppo ha perlustrato terre dove non è stato mai messo piede umano, salito cime vertiginose e colli di oltre 6000 metri, mappato nuovi ghiacciai, documentato con foto e descrizioni l’inospitale e impenetrabile “foresta verticale”, caratterizzata da continui saliscendi, torrenti e gole da oltrepassare o aggirare. Afferma il capo spedizione Peruffo: “Nonostante l’inaccessibilità della Cresta Zemu da Sud, abbiamo salito 7 cime vergini e raggiunto 7 colli di alta quota (3 mai raggiunti prima), esplorando 3 ghiacciai, 2 dei quali integralmente, mai toccati da piede umano, attraversando una foresta tropicale impenetrabile e molto pericolosa, che ci isolava dal mondo”.
Per condividere oggi questi risultati culturali e questo nuovo rilancio dell’alpinismo di esplorazione, a basso impatto sull’ambiente, sono stati determinanti i contributi di Sabina Universitas per la parte dell’attrezzatura fotografica, di Solsonica per i pannelli solari, di tante realtà commerciali di Rieti, Terni e Roma che hanno voluto dare il loro apporto con mezzi, strumenti, competenze a questa impresa in quota, lunga, complessa dal punto di vista diplomatico e molto faticosa dal punto di vista fisico; essenziale è stato inoltre l’appoggio delle Istituzioni e degli Enti locali che a diverso titolo hanno reso possibile il realizzarsi del progetto.
Intanto il team sta pensando di realizzare un libro, un cortometraggio e una mostra su questa esperienza di alpinismo “con altri occhi” dal titolo “Zemu exploratory expedition. Nuove frontiere dell'esplorazione in Himalaya”.